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DiSbieqo Smetto quando voglio

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Smetto quando voglio è il lungometraggio d’esordio del giovane regista salernitano Sydney Sibilia, che appena più che trentenne, non realizza un brutto film, anzi.
La storia, pur nella semplicità dell’intreccio, risulta davvero divertente, con momenti in cui le risate sono genuine e spontanee.

Pietro Zinni, interpretato da Edoardo Leo – di recente in Tutta colpa di Freud – è un ricercatore in chimica teorica di trentasettenne anni, che inceppa nelle logiche baronali tipiche delle Università italiane e rimane improvvisamente senza borsa post doc. Nella sua identica situazione si trovano anche altri amici, due squisiti latinisti che per vivere fanno i benzinai da un gestore bengalese – conversando tranquillamente in latino –; un archeologo sfigato che scava reperti assieme a coloriti manovali; un chimico computazionale – strepitosa interpretazione di Stefano Fresi, che riesce a strappare la maggior parte delle risate –; un antropologo che non viene assunto dal meccanico perché laureato, dunque troppo colto nel parlare e, infine, un economista che tenta di vivere insieme a un gruppo di Sinti circensi contando le carte a poker.

Cosa si inventeranno per sopperire alla mancanza di lavoro, di soldi, di dignità? Se in Italia le nuove molecole di droga ci mettono un po’ di tempo per essere inserite nelle liste delle sostanze psicotrope illegali, perché non approfittare delle capacità del gruppo di poliedrici professionisti? Soltanto le parti che questi fantastici nerd dovranno interpretare sono di per sé motivo di divertimento: come non ridere all’analisi antropologica degli “animali da discoteca”, o all’organizzazione scandita da tappe perfezioniste, dal business plan, alla produzione maniacalmente perfetta, fino al sofisticato marketing di distribuzione?

L’inizio del film rimane senz’altro impresso per una buona capacità emulativa con il buon cinema americano degli ultimi anni. Attraverso delle splendide riprese aeree di una Roma notturna e psichedelica – il colore acido, come le molecole spacciate, varia dal verde al viola, in una fotografia davvero inusuale per il cinema italiano contemporaneo. Diciamolo: non sembra un film italiano! La regia – ed è un esordio – è ben orchestrata, con un montaggio scattante e ben costruito, un fotografia che parte, appunto, acidissima per ritrovare le giuste sfumature dei colori, anche se un po’ virata rimane fino in fondo. In alcune scene la steady-cam fa da protagonista; in altre anche il ralenti con una funziona drammatizzante si miscela bene. La sceneggiatura, forse, è un po’ più fragile e alcune presenze, come la fidanzata interpretata da Valeria Solarino, davvero non meritano plauso – non si sa se per l’antipatia del personaggio, sempre “arrabbiato con il mondo”, o per la mancanza di variazioni di tono nell’interpretazione monotona e che stanca un po’.

Interessante il meccanismo per il quale spacciare droga sembra apparire legittimo se lo Stato ti mette nelle condizioni di vivere come “un morto di fame”, come se fosse giusta la rabbia che si prova, il senso di “tanto peggio di così…”

Unico neo – va detto, però – è il sottolineare, in più occasioni, che si sta peggio anche di chi sta, normalmente, peggio. Ecco che si rischia un po’ di rendere tutte “mignotte” le donne provenienti dall’Est, russe e ucraine che siano, trasformare i Sinti in un popolo di persone senza troppi scrupoli e il bengalese in un esempio di burbero sfruttatore. Oltre tutti questi ci sono i precari, che stanno, appunto, sotto.

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Pubblicato il: 15 febbraio 2014

Argomenti: DiSbieqo, Quaderni

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