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Il ritorno per molti non fu: memorie della Prima guerra a Palazzo Blu

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La domenica della vita: la storia dell’arte nell’era di Twitter

di Lorenzo Carletti e Cristiano Giometti

Domenica scorsa ricorrevano i cento anni dall’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale e la televisione di stato ha voluto osservare un minuto di silenzio per i caduti di guerra, una sorta di monumento postumo nella grande piazza mediatica. Strano modo per liberarsi la coscienza, visto che – con rarissime eccezioni nei canali dedicati alla storia – pesino in questi mesi si è evitato di trattare il tema, magari inserendo nei palinsesti qualche splendido film, sconosciuto alle giovani generazioni, che avrebbe aiutato loro a capire meglio quell’immane tragedia: da Orizzonti di Gloria di Stanley Kubrik (1957),  a La grande guerra (1959) di Mario Monicelli, da Uomini contro (1970) di Francesco Rosi,  a Torneranno i prati (2014) di Ermanno Olmi. La filmografia è vastissima, ma certo non può competere con Striscia la notizia, i vari talent e talk-show: meglio cavarsela col minuto di silenzio.

Per fortuna molte istituzioni in giro per il paese non sono rimaste ferme e silenti. In questi mesi si sono organizzate svariate conferenze, pubblicazioni e mostre per raccontare la catastrofe che rappresenta un vero spartiacque del nostro tempo. La più ambiziosa tra le esposizioni è quella inaugurata il 4 ottobre scorso al Mart di Rovereto, visibile sino al 20 settembre prossimo: La guerra che verrà non è la prima 1914 – 2014. Qui l’arte si confronta con la storia, la politica e l’antropologia, e i capolavori delle avanguardie dialogano con la propaganda e le testimonianze giornalistiche, mentre disegni, incisioni, fotografie, manifesti, lettere, cartoline e diari si misurano con sperimentazioni artistiche più recenti, installazioni sonore, narrazioni cinematografiche originali e cimeli. Nel suo piccolo, però, anche a Pisa si è voluta raccontare la “prima guerra globale a totale, […] combattuta nelle trincee e nelle fabbriche, nei campi d’internamento e di prigionia, nelle campagne e nelle città, nelle redazioni dei giornali e negli studi cinematografici, negli ospedali e nei manicomi”. Si tratta della bella esposizione dal titolo I segni della guerra. Pisa 1915-1918: una città nel primo conflitto mondiale allestita nelle sale di Palazzo Blu.

muraLa mostra è organizzata in sei sezioni tematiche, che dalla scelta dell’intervento ci accompagnano a una riflessione sulla modernità tecnologica della guerra e sulla carneficina, ma si racconta soprattutto l’impatto del conflitto sulla città e i suoi abitanti. Chi ricorda, ad esempio, che il varco nelle antiche mura di Pisa accanto a Porta Nuova, in Piazza Manin, fu creato per permettere il trasporto dei feriti di guerra direttamente in treno da San Rossore all’Ospedale di Santa Chiara? E chi ricorda il passaggio in città dell’Assunta di Tiziano – cui Elena Franchi ha dedicato un bel libro – evacuata dalla chiesa dei Frari di Venezia dopo la disfatta di Caporetto nell’ottobre del 1917?

CeccottiScriveva lo scrittore austriaco Arthur Schnitzler nel 1915 che “il vocabolario della guerra è fatto dai diplomatici, dai militari, dai potenti. Dovrebbe essere corretto dai reduci, dalle vedove, dagli orfani, dai medici e dai poeti”. Con questo spirito, si seguono le testimonianze di due personaggi realmente esistiti: Antonio Ceccotti, nato a Bagni di Casciana nel 1891 da una famiglia di mezzadri, socialista e pacifista, e Ivo Stojanovic, classe 1893, studente di giurisprudenza presso l’Università di Pisa, interventista e volontario. Lungo il percorso un’applicazione multimediale mostra due attori che leggono brani di lettere, discorsi e testimonianze dei due protagonisti altrimenti sconosciuti, ed è un espediente riuscito: seguendo l’itinerario assieme a studenti delle scuole superiori, ansiosi di ascoltare il proseguo delle storie, si è avuta la riprova dell’efficacia di questo strumento. Per una volta, dunque, un buon uso del multimediale. Perché le parole di Ceccotti e di Stojanovic, anche se gli attori a tratti marcano troppo la recitazione, parlano da sole: il primo, reduce della campagna di Libia nel 1911-12, ricorda la sua fede socialista e libertaria e scrive che “c’era chi gridava che voleva fare la Patria sempre più grande, mentre io per natura più della Patria amo l’umanità intera”. Ceccotti combatte sull’Altipiano di Asiago e sul Carso, vive la disfatta di Caporetto, vien fatto prigioniero in Austria, poi Croazia, Bosnia, Dalmazia. Lui, che la guerra non la voleva fare, torna sano e salvo dopo aver perso un fratello e tanti compagni, “tanti di quelli che all’inizio avevano gridato viva la guerra, ma anche di quelli che erano partiti perché non si poteva fare altrimenti”. Il ritorno per molti non fu recita il ritornello di una canzone composta dai fanti che conquistarono Gorizia il 10 agosto 1916, ove persero la vita, secondo dati ufficiali, 52.000 soldati di parte italiana e oltre 40.000 di parte austriaca.

StojanovicPrima di partire Stojanovic invece non ha paura: “Forse toccherà a me”, scrive, perché “le ruote della storia hanno bisogno di olio rosso per girar bene”. La retorica futurista scorre a fiumi nel suo discorso tenuto in un’assemblea di studenti il 28 febbraio 1915; la stessa retorica, solo un poco più incerta, risuona nelle lettere spedite ai genitori dalle trincee, quando dice loro di non piangere se dovesse cadere, “anzi mi esaltino, perché un sacrificio più bello e santo, più utile e nobile, non potrebbero augurarmi”. Cosa che effettivamente accadde nel 1917. Uno stornello toscano dell’epoca ben riassume i due punti di vista di Stojanovic e Ceccotti: “E maledico chi vorse la guerra/ i primi son stati gli studentini/ e quanta gioventù caduta ‘n terra/ e quanto sangue sparso pe’ confini./ Vittorio Emanuele re del regno/ o quanta gente hai fatto macellare/ se vuoi i sordati fatteli di legno/ ma i’ mi morino lasciamelo stare./ Vittorio Emanuele cosa fai/ la meglio gioventù tutta la vòi/ la meglio gioventù tutta la vòi
/ e l’amor mio quando me lo ridai?
”

In questa bella mostra è purtroppo assente il contesto letterario, a cominciare da quello ricchissimo del nostro folklore, ma soprattutto colpisce l’assenza delle illustrazioni dei futuristi nei fogli interventisti che all’epoca circolavano abbondantemente in città, lasciando segni indelebili in artisti allora troppo giovani come Fortunato Bellonzi. Dispiace che, al contrario della mostra di Rovereto, l’arte e la sua storia siano relegate ancora a un ruolo ancillare, di mera illustrazione come in un manuale scolastico con manifesti di propaganda già molto riprodotti e qualche vignetta satirica. Persino la parte che tratta i monumenti ai caduti ne affida la memoria a pochi simulacri, senza occuparsi della loro genesi, tralasciando le tante lapidi e sculture presenti nel cimitero suburbano che raccontano le storie di singoli soldati e intere famiglie che, per le sorti imprevedibili del conflitto, hanno trovato asilo a Pisa pur provenendo dalle zone più disparate d’Italia.

La citazione di Karl Liebknecht che chiude il percorso di Palazzo Blu parla proprio di monumenti ai caduti e pensioni ai reduci come di un modo per chi la guerra l’ha voluta di alleggerirsi la coscienza. Facciamo un minuto di silenzio.

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Pubblicato il: 31 maggio 2015

Argomenti: Cultura, Pisa

Visto da: 1144 persone

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