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Dentro il Visual Computing Lab, tecnologia per le opere d’arte

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Viaggio nel laboratorio del Cnr che digitalizza le opere d’arte. E che ha sviluppato un software open source per la visualizzazione di modelli 3D diventato il riferimento degli specialisti di tutto il mondo


Il Visual computing lab è un laboratorio informatico dell’Area della ricerca del Cnr di Pisa, nato alla fine degli anni Ottanta con l’attività di alcuni ricercatori che si occupavano di tecnologie 3D. Erano i tempi dei primi sistemi di visualizzazione tridimensionale, le ricerche si concentravano sul rendering di dati complessi per l’industria e per il settore medicale. Negli anni il focus si è spostato sull’acquisizione di dati 3D e il Visual Computing Lab si è specializzato nel settore dei beni culturali. Hanno creato un software che serve a visualizzare e manipolare modelli tridimensionali ad alta risoluzione, scaricato oltre un milione di volte e diventato il riferimento degli specialisti. La Collezione Guggenheim ha chiamato loro quando si è trattato di analizzare Alchemy di Jackson Pollock, hanno aiutato i conservatori per la pulizia del David di Michelangelo e scannerizzato un’intera insula di Pompei. Viaggio nel laboratorio dei nerd che digitalizzano le opere d’arte.

Marco Callieri, da 12 anni in forza al Visual Lab, ci accompagna tra le stanze piene di strumenti e oggetti stampati in 3D. “Siamo un laboratorio di informatica che lavora sulla computer graphic sotto diversi aspetti. Dallo sviluppo degli algoritmi alla gestione delle basi di dati, fino alle applicazioni dirette delle tecnologie che sviluppiamo nel campo della sicurezza e in quello dell’esplorazione di ambienti particolari fino ai sistemi legati alla mobilità urbana”. Se inizialmente l’attenzione è concentrata sulle nuove frontiere della visualizzazione, con il boom della stampa tridimensionale il Visual Lab ha cominciato ad occuparsi della progettazione di strutture particolari, che oltre al valore estetico abbiamo una serie di proprietà ben definite. Per questo occorre lavorare sulle microstrutture. Nel laboratorio del Cnr studiano le soluzioni più adatte realizzando modelli di pupazzetti da stampare in 3D, pezzi all’apparenza identici che se schiacciati con le dite reagiscono in maniera controllata e differente, uno ride e l’altro fa il broncio. Gli algoritmi alla base del trucco sono li stessi che hanno permesso ad esempio la costruzione della cupola in vetro e acciaio del British Museum di Londra.

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Matteo Dellepiane con la riproduzione di Alchemy di Jackson Pollock

“Ad un certo punto, spinti anche dalla grande offerta che avevamo in Toscana” sorride Marco Callieri, “abbiamo cominciato ad applicare le soluzioni che applicavamo nel campo industriale al settore dei beni culturali. Abbiamo cominciato a girare tra fiere, seminari, incontri scientifici, la penetrazione di questo tipo di nuove tecnologie è stata molto lenta”. L’idea dei ricercatori del Visual Lab è stata quella di mettere a disposizione strumenti e software per scannerizzare opere d’arte e monumenti, creando un modello tridimensionale e offrendo sistemi di visualizzazione che supportano il lavoro dei conservatori e le attività di musei e divulgatori.

“Ci siamo rivolti alle istituzioni e avviato le collaborazioni, prima con l’Opera Primaziale di Pisa e poi con il Centro di conservazione di Firenze, uno dei più importanti del mondo, oggi purtroppo a rischio chiusura a causa dei tagli”.

Uno dei primi interventi del Lab è stata la scansione del David di Donatello, realizzata in collaborazione con un’università statunitense. Il modello 3D della statua è fondamentale per conoscere il centro di massa e tenere sotto controllo le fratture storiche. Anche la Madonna di Pietranico, andata distrutta con il terremoto dell’Aquila. è stata ricomposta con l’aiuto del Visual Lab. La statua in terracotta si era rotta in pezzi piccolissimi, molti confusi tra le macerie, ricomporla a mano era quasi impossibile. Una volta scannerizzati i pezzi disponibili, muoverli sullo schermo e scoprire gli incastri è stato più semplice. Per farla stare nuovamente in piedi poi è bastato stampare il modello del “vuoto” della statua, una sorta di stampa 3D in negativo che ha permesso quello che è formalmente riconosciuto come il primo restauro del post terremoto.   


Il video che mostra la presentazione della collezione di monete del Museo di San Matteo

Acquisizione digitale e stampa tridimensionale sono tecnologie sempre più diffuse nel campo dei beni culturali. Le copie a contatto, ottenute tradizionalmente con i calchi in gesso e più recentemente con il silicone, tendono sempre a danneggiare l’opera. Inconveniente che scompare con i nuovi sistemi, capaci di restituire copie in tutto e per tutto identiche, almeno dal punto di vista materico, all’originale. Ai ricercatori del Visual Lab è capitato anche di digitalizzare un’intera insulta di Pompei alla risoluzione di 1 millimetro. “Collaboriamo con la Scuola archeologica svedese, grazie al nostro lavoro gli specialisti ottengono mappe di rischio molto utili per arrivare a stabilire una lista di priorità degli interventi” racconta Callieri, “anche molte mappe risalgono agli anni Sessanta e sono in forma di interi faldoni di schemi e tabelle”. Per l’istituto svedese invece il Lab ha realizzato una cave, un sistema che permette di immergersi completamente all’’interno dell’insula pur essendo a migliaia di km di distanza.


Il video di presentazione di Meshlab nella versione per tablet

Dietro al successo del laboratorio pisano c’è Meshlab, un software sviluppato dai ricercatori del Lab seguendo la filosofia dell’open source. Meshlab serve a editare, visualizzare e manipolare modelli tridimensionali ad alta risoluzione ed è scaricabile gratuitamente. Chiunque può ottenere il codice del programma e modificarlo come crede in base alle proprie necessità. “Ha cominciato a diffondersi molto nell’ambiente dei professionisti del 3D, che lo usano anche molto banalmente per mostrare il portfolio, ed in quello dei beni culturali” spiega Marco Callieri, “nel 2014 abbiamo raggiunto quota un milione di download, che per un software molto specialistico non è male”.

Archeologi, restauratori, storici dell’arte usano Mashlab perché è un programma relativamente alla portata di tutti e che funziona su tutti i sistemi operativi. La scelta è stata quella di non voler monetizzare immediatamente dalla vendita del software, “perché vogliamo avvalerci della collaborazione di tutti per migliorarlo costantemente, e poi comunque restiamo un centro di ricerca, il nostro scopo è produrre articoli scientifici, non soluzioni per le aziende”. Per venire incontro alle esigenze specifiche delle aziende, in alcuni casi il Visual Lab rilascia versioni modificate, e a pagamento, del software.

A finanziare le attività del Visual Computing Lab – intorno al quale oggi gravitano 23 persone tra personale strutturato, dottorandi e collaboratori – sono per il 75% fondi europei e per il restante trasferimenti degli enti locali e collaborazioni con privati. “In Italia le aziende tendono a rivolgersi ai centri di ricerca chiedendo direttamente soluzioni applicabili al loro processo produttivo” afferma Callieri, “all’estero il trasferimento tecnologico prende strade diverse, l’industria compra l’idea, in forma di brevetto, e provvede ad ingegnerizzarla in azienda. In Germania il Fraunhofer-Gesellschaft (organizzazione tedesca che raccoglie 60 istituti di ricerca applicata, ndr) campa ancora con il brevetto dell’Mp3, per dire”. Altra via è quella della creazione di spin off, imprese che nascono dagli istituti e si lanciano sul mercato. “Ma in Italia la burocrazia è spesso un ostacolo insormontabile” ammette rassegnato Callieri, “anche qui al Cnr molti colleghi hanno avuto problemi in questo senso, così come nell’ottenimento dei brevetti”. Il messaggio è chiaro, i nerd vogliono continuare ad occuparsi di ricerca pura.

Il sito del Visual Computing Lab 

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Pubblicato il: 29 marzo 2015

Argomenti: Cultura-Tech, Pisa, Tech

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