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“Sono ancora viva”. La strada per la liberazione delle donne uscite dalla violenza

Eugenio-flickr

La storia di otto donne che hanno avuto la forza e il coraggio di uscire dalla violenza raccontata da due giornaliste, Elena Guidieri e Chiara Brilli. Ne abbiamo parlato con loro


sono_ancora_vivaOtto donne, diverse fra loro, che si sono ribellate alla violenza. Sono ancora viva racconta la loro storia. La storia di donne che con difficoltà e coraggio hanno scelto la strada della denuncia. E quella dei loro figli, che si trovano ad affrontare lo stesso percorso spesso diventando oggetto di contesa, ricatto e minacce.

A scrivere e raccontare la loro storia Elena Guidieri e Chiara Birilli, giornaliste, che grazie alla collaborazione del coordinamento Tosca dei centri Antiviolenza della Toscana hanno intervistato otto donne per raccontare cosa separa la vita di una donna che subisce violenza dai casi di femminicidio che compaiono sui giornali. E per raccontare che dalla violenza si può uscire.

Con Chiara Brilli e Elena Guidieri, che sabato 28 marzo saranno alla Casa della Donna di Pisa per presentare il loro libro, abbiamo parlato di Sono ancora Viva (Le Lettere, 2014).

Sono ancora viva racconta la violenza sulle donne da una prospettiva diversa da quella della cronaca che leggiamo sui giornali, raccontando e dando voce a quelle donne che sono “sopravvissute”, che hanno scelto di denunciare e lasciare i compagni violenti.  Come nasce questa scelta, come avete scelto le storie da raccontare e che difficoltà avete trovato ha raccontarle?

Sono ancora viva non racconta la fiction, ma la realtà della violenza domestica

Sono ancora viva nasce come un’affermazione di dignità: la dignità delle donne vittime di violenza, la dignità degli operatori e delle operatrici professionali che giorno dopo combattono la violenza di genere nonostante la scarsità degli strumenti a loro disposizione. E la dignità di chi, come noi autrici, svolge la professione giornalistica. Perché non è giusto, oltre che poco dignitoso, continuare a trattare la violenza sulle donne, e ancor più il femminicidio, alla stregua di un romanzo criminale. Dove le uniche cose che rimangono impresse nella memoria dei lettori o degli spettatori sono i particolari cruenti del fatto avvenuto, le chiacchiere su di lei o su di lui, le foto che li ritraggono sorridenti e felici, il possibile tradimento, la gelosia, il troppo amore. Parole vuote, inadatte a raccontare quella prigione che un compagno violento sa costruire intorno alla propria vittima; e che talvolta, purtroppo, si rivela fatale per lei. Sono ancora viva non racconta la fiction, ma la realtà della violenza domestica: come questa nasce e mette radici all’interno del nucleo familiare, come viene interrotta dalla decisione di uscirne, quanti e quali gli ostacoli che si pongono sulla strada di chi sceglie di denunciare.
Il nostro primo passo è stato quello di condividere la nostra impostazione con alcuni centri antiviolenza della Toscana: Artemisia di Firenze, la Casa della Donna di Pisa, l’Associazione Frida. Attraverso di loro, e con non poche difficoltà, abbiamo individuato le persone che si sono rese disponibili a raccontare la loro storia, le otto donne che hanno prestato la loro voce per questo libro.

Le donne a cui date voce hanno storie dolorose, fatte di violenza fisica e morale. Dalle loro parole spesso emerge un senso di vergogna da cui cercano di liberarsi, e la fatica di un percorso che implica anche la ricostruzione della stima in se stesse che anni di violenza hanno minato. Quanta resistenza avete incontrato per farvi raccontare le loro esperienze? Quanto invece questa è stata vissuta da loro come un’occasione per aiutare altre donne vittime di violenze a comprendere che uscire dalla violenza è possibile?

Le donne che hanno scelto di raccontarci la propria storia erano state accuratamente informate del tipo di lavoro che stavamo svolgendo. Il fatto che queste fossero state preparate dalle operatrici dei centri antiviolenza, ha fatto sì che ci trovassimo di fronte a donne pronte a riaprire quei capitoli così dolorosi della loro vita. Nessuna resistenza dunque. Anzi, la sensazione che abbiamo avuto è che per molte di loro poter mettere nero su bianco i fatti, le ingiustizie, le difficoltà affrontate, abbia costituito una sorta di riscatto. La possibilità di affermare e raccontare la verità; la possibilità di affidare alle pagine di un libro una testimonianza che forse un giorno potrà essere preziosa anche per i loro figli. E sì, sicuramente un’occasione per dare coraggio a tutte le donne vittime di violenza, affinché non si sentano sole e perdute, affinché possano affidarsi ai centri e ad operatrici qualificate.

C’è una domanda ricorrente nel vostro libro, a volte esplicita altre sottintesa: “Come si fa a vivere una vita normale dentro la violenza?”. Avete trovato una risposta a questa domanda?

Le storie di violenza non iniziano mai all’improvviso

La risposta più illuminante in proposito l’ha data una delle donne intervistate, Greta, che parla di “un filo sottile che divide il possibile dall’impossibile; quando lo oltrepassi ti arrivano addosso delle cose impossibili da capire per chi non le sta vivendo”. Le storie di violenza non iniziano mai all’improvviso; il primo schiaffo, la prima spinta, il primo cazzotto, sono sempre preceduti da un percorso di indebolimento o annientamento della personalità della vittima. Un percorso che inizia con segnali a cui inizialmente si tende a non dare peso, prevaricazioni di ogni tipo, tentativi di isolamento, una gelosia che sembra romantica ma nasconde un sentimento ossessivo e possessivo.

Sono ancora viva contribuisce a sfatare la falsa credenza che la violenza domestica riguardi di fatto solo persone che provengono da situazioni sociali ed economiche disagiate, raccontando storie di donne e di uomini violenti che per estrazione sono anche molto diverse fra di loro. Il percorso che ognuna di loro fa per arrivare alla scelta decisiva di uscire dalla spirale di violenza è soprattutto, mi pare, una presa di coscienza personale. Ma ciò che si deve affrontare dopo, le denunce, gli avvocati, il mantenimento dei figli mette indubbiamente a dura prova quelle donne che si trovano in condizioni meno agiate.

Sì, è così. E questa è una delle denunce che vorremmo emergessero con forza da questa lettura. Più di una delle donne che abbiamo intervistato ha affermato di aver potuto fare il percorso legale che ha fatto perché si trovava in una buona situazione economica o perché aveva un solido appoggio della famiglia alle spalle. Purtroppo, non per tutte è stato così. Gli avvocati costano e rischiano a loro volta di allungare i tempi quando non fanno bene il loro mestiere o non sono specializzati in violenza di genere; i tempi della giustizia sono lunghi e spesso servono mesi, se non anni, perché venga emessa una sentenza definitiva. Per non parlare di come l’attuale precarizzazione del lavoro renda ancora più difficile la scelta di intraprendere un percorso legale di questo genere. Meglio va per le donne che scelgono di affidarsi ai centri antiviolenza, dove la tutela viene offerta anche dal punto di vista legale. Ma ad oggi, fuori da questi centri, possiamo dire che soltanto chi può permetterselo può scegliere di denunciare gli abusi.

A partire dalle storie che avete raccolto, quali interventi credete sarebbero necessari per “facilitare” l’affermarsi della giustizia?

Dovrebbe esistere una strada prioritaria quando a rischio c’è l’incolumità di una persona e ancor più se di mezzo c’è il benessere di un minore

Che i processi in Italia vadano troppo per le lunghe è cosa nota e qui è difficile e non è compito nostro capire come le cose potrebbero essere modificate. E’ vero però che dovrebbe esistere una strada prioritaria quando a rischio c’è l’incolumità di una persona e ancor più se di mezzo c’è il benessere di un minore. Non è possibile che una donna che sceglie di denunciare trovi un sistema che non è pronto ad accoglierla e a tutelarla, una legge che non punisce (o punisce dopo anni con pene esigue). Sicuramente, all’interno dei tribunali così come nei comandi delle forze dell’ordine, aiuterebbe che questi casi venissero affidati a personale qualificato, con esperienza nel campo. In alcune delle storie che abbiamo raccolto, sembra che proprio l’inesperienza di avvocati, così come di assistenti sociali o pubblici ufficiali, abbia contribuito a creare situazioni di scarsa tutela delle vittime di violenza.

Le storie che avete raccolto lasciano nel fondo la sensazione che, dal momento in cui si sceglie di denunciare, a giudicare un ruolo non secondario sia la “fortuna”: il rappresentante delle forze dell’ordine che non scoraggia questa scelta e che magari suggerisce di rivolgersi ai Centri antiviolenza, la scelta dell’avvocato giusto ed esperto in materia, ma anche servizi sociali competenti. Elementi non secondari per chi, vittima per anni di violenze. Alcune delle intervistate dicono di “aver visto vacillare la legge”, altre di essersi scontrate con una scarsa tutela dei minori.
Questi aspetti quanto incidono sulla difficoltà a denunciare? Cosa si potrebbe ancora fare, da un punto di vista legislativo? E quanto a vostro parere ci sarebbe bisogno di formazione anche per le forze dell’ordine che ricevono le denunce?

Sarebbe necessario un coordinamento tra tutti i soggetti incaricati di seguire il percorso di fuoriuscita dalla violenza

Ci sarebbe bisogno di personale qualificato tanto nelle forze dell’ordine quanto tra gli assistenti sociali. In generale, sarebbe necessario un coordinamento tra tutti i soggetti incaricati di seguire il percorso di fuoriuscita dalla violenza. Su questo dovrebbe insistere l’attività legislativa: non sul finanziamento una tantum dei centri antiviolenza, ma sull’ascolto di operatori qualificati, sullo studio di un sistema di servizi integrati che comunichino tra loro, offrendo una tutela reale a chi sceglie di denunciare. Niente di tutto questo accade oggi nel nostro paese. I centri antiviolenza sopravvivono sul lavoro precario e sul volontariato delle operatrici, non possono fare progetti di lunga durata perché non sanno se e quando verranno rinnovati i finanziamenti a loro disposizione. Non servono nuovi soggetti, ma serve potenziare e coordinare al meglio le forze che già si occupano di violenza di genere. Serve introdurre percorsi educativi nelle scuole, combattere l’affermazione di stereotipi e di una cultura della prevaricazione. Serve investire risorse, fare progetti a lungo termine, mettere in campo politiche che forse fanno meno clamore e trovano meno spazio sui media, ma che possono rivelarsi più efficaci di quanto fatto fino ad ora.

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Pubblicato il: 22 marzo 2015

Argomenti: Sociale

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