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“Perché avete deciso di venire in Italia?”

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Pubblichiamo per gentile concessione della cooperativa Arnera l’intervento di Jenny De Salvo, operatrice sociale e insegnate del corso di italiano per migranti, che racconta l’incontro con i profughi che arrivano a Pisa, le loro difficoltà e speranze


La domanda arriva diretta al cuore della questione e probabilmente è quello che la maggior parte degli italiani si chiede ogni giorno nel vedere  immagini di imbarcazioni di fortuna, stipate all’inverosimile di essere umani, arrivare nei nostri porti dopo la traversata del Mediterraneo.

È una domanda  che contiene l’equivoco di fondo sul quale si base tutta la narrazione relativa  l’arrivo dei migranti sulle nostre coste. È una domanda culturalmente determinata, com’è giusto che sia, e che riproduce il punto di vista e l’immaginario di chi accoglie.

Per capire quanto siano distanti i mondi esperienziali di chi arriva e chi accoglie basta fare un salto nei nostri corsi di italiano, dove una delle prime cose che insegniamo è l’uso dei verbi. Il verbo, cuore della frase, senza il quale è impossibile esprimersi, capire e farsi capire.

Ed è proprio nell’uso dei verbi che emergono le dicotomie più importanti: partire/fuggire; decidere/costringere; viaggiare/attraversare.

È da queste dicotomie che bisogna partire per provare a raccontare quello che abbiamo imparato a conoscere nell’ultimo anno a contatto diretto con i profughi in arrivo dall’Africa e dall’Est Asiatico.

Noi conosciamo le partenze: esse si programmano, hanno una meta ben precisa, un obiettivo e di solito prevedono un ritorno.  Su presupposti diversi, e opposti si basano le fughe. Lo dicono bene i ragazzi, rispondendo alla domanda.

“Noi non abbiamo deciso di venire in Italia, abbiamo solo dovuto lasciare il nostro paese nel quale avevamo problemi legati a questioni politiche, religiose ed etniche”.

Non importa la meta, importa rimanere vivi

Non c’è un elemento decisionale, non c’è volontà nè discrezionalità. Partono, lasciandosi tutto alle spalle con l’unico obiettivo di salvarsi la vita. Non importa la meta, importa rimanere vivi. E se questo è l’obiettivo allora è impossibile fermarsi nei paesi di transito, perchè in Africa si sa (o si dovrebbe sapere) i conflitti sono molteplici. E allora si attraversa un paese dopo l’altro lasciandosi alle spalle non solo la propria miseria, ma anche quella di tutti i conflitti e le miserie che si incontrano. Il cammino è lungo, ed è molto pericoloso. Si attraversa il deserto su veicoli di fortuna guidati da contrabbandieri, incrociando altri veicoli, incontrando cadaveri di uomini, donne e bambini morti in seguito ad incidenti o che semplicemente non hanno resistito ai giorni passati senza bere e senza mangiare. È un viaggio verso nord, e se si va a nord la meta obbligatoria è la Libia.

E la Libia è il peggio di tutto quello che hanno potuto vedere o immaginare. Anche per noi, che ascoltiamo le loro storie, riuscire ad immaginare quell’inferno sulla terra non è possibile.

Abbiamo visto passare uomini, donne e bambini provenienti da diverse parti dell’Africa e dell’Asia, con culture e lingue diverse. Appena si sente “Libia” il coro è unanime: “Libia muschilla alba” (la Libia è un problema enorme). L’equazione Libia = problema è condivisa da tutti, qualunque sia la loro storia.

Ancora oggi dopo  mesi dall’arrivo in Italia capita che a volte qualcuno di loro si perda nei suoi pensieri e poi ti guardi e ti dica ‘La Libia non va bene’. La Libia evoca un incubo reale, che rimane lì e probabilmente ci rimarrà per sempre.

In Libia oggi sei nero e sei colpevole

Per capire il motivo di questo incubo, bisogna fare un passo indietro nella storia e tornare ai tempi di Gheddafi: il colonnello, infatti, usava uomini di colore come proprio esercito personale con il quale perpetrare le atrocità sul proprio popolo. Quando Gheddafi è morto i libici hanno sfogato e continuano a sfogare tutto il loro risentimento e desiderio di vendetta nei confronti della popolazione di colore. In Libia oggi non importa se eri un mercenario o un lavoratore, sei nero e sei colpevole.

La Libia che ci raccontano è un far west nel quale non c’è persona, inclusi i bambini, che non abbia una pistola. Le munizioni si comprano nelle botteghe, come da noi si compra il pane. Se sei nero non puoi camminare per strada se non sei accompagnato da un libico. Se per caso sei costretto a farlo, può capitare che un libico ti fermi per strada, ti faccia svolgere un lavoro pesante, poi ti picchi e ti rimetta in strada.

Se sei nero è automatico finire in prigione. Abbiamo imparato che le prigioni di cui raccontano i ragazzi, ancora una volta, non hanno nulla a che vedere con quelle che ci immaginiamo. Le prigioni di cui raccontano sono edifici di proprietà dei mercanti di esseri umani. I neri vengono rapiti e chiusi all’interno di questi edifici, dove vengono picchiati, costretti a stare in posizioni innaturali, privati del cibo e dell’acqua. I mercanti obbligano a chiamare la  famiglia nel paese di origine e chiedono un riscatto. Se la famiglia non paga, vieni venduto ad altri mercanti e il tuo prezzo aumenta. Come aumentano la paura e il senso di sfinimento. Ogni tanto un libico “civile” va a visitare la struttura e si informa dei mestieri che gli ostaggi sono in grado di svolgere. Se la tua arte lo interessa, ti compra e tu cambi padrone, ma almeno la tua famiglia non deve più trovare i soldi per farti uscire da lì.

Ci racconta uno dei ragazzi, che è un meccanico, di essere stato comprato da un libico che aveva un’officina. Per un anno ha vissuto in una stanza di fianco all’officina, senza finestre nè bagno, lavorando 12 ore al giorno e mangiando solo un piatto di riso. Un giorno, approfittando di una distrazione del padrone, è riuscito a scappare. È stato il suo giorno fortunato.

La sua storia è la storia di tutti e tutte, in un paese in cui la schiavitù razziale è la normalità a soli 350 km dalle coste italiane.

L’unica possibilità è cercare la traversata del Mediterraneo

Se si è tra coloro che hanno avuto il loro giorno fortunato e sono riusciti a sopravvivere ai propri aguzzini, l’unica possibilità che si ha è cercare la traversata del Mediterraneo. Uno dei ragazzi l’ha posta così: “Immagina di essere su un muro alto, con il vuoto davanti a te e il vuoto dietro di te. L’unica sicurezza che hai è che se cadi indietro sei morto. Quello che puoi fare allora è buttarti in avanti, dove forse c’è la morte o forse no”.

E allora si va avanti, sul barcone, pronti per la traversata. Sappiamo poco del viaggio in mare, i ragazzi ne parlano malvolentieri e noi abbiamo sempre grande pudore nel domandare. Cogliamo scorci, immaginiamo attraverso le ferite fisiche che medichiamo, una piaga da decubito dovuta al tempo passato sempre nella stessa posizione in prigione e poi infettatasi durante una traversata in una barca in cui eri immerso nell’acqua salata fino alla vita.

E poi se è di nuovo il tuo giorno fortunato c’è la salvezza, che ci piace raccontare con i ricordi di un bambino eritreo di dodici anni in viaggio con la sua mamma. Arriva a Pisa di notte, beve una tazza di latte caldo e si mette subito a disegnare, instancabile come tutti in bambini della sua età in qualunque parte del mondo.

Disegna una barca piccola piccola circondata da pesci grandi come quella barca. Poi a fianco disegna una barca enorme: sulla fiancata di quella barca scrive una sigla fatta di lettere e numeri e poi Italy. Lui era su quella barca piccola piccola di notte ed è stato il primo a scorgere la nave della marina italiana, che faceva parte dell’operazione Mare Nostrum, arrivata a salvarli. È stato lui il primo ad urlare di gioia e avvisare i suoi compagni di viaggio che erano salvi. Ci dice che non se lo dimenticherà mai, e neanche noi.

Dal mare di Lampedusa a Pisa. I trasferimenti dai luoghi dello sbarco vengono decisi dal Ministero dell’Interno.

Quando i migranti arrivano a Pisa, non sanno mai dove si trovano, in quale parte d’Italia e del mondo sono. E allora una delle prime cose che facciamo è andare al planisfero e vedere insieme dove siamo. Il bambino e sua mamma sono rimasti a Pisa giusto il tempo di riposarsi, uno o due giorni, e poi una mattina sono andati via, decidendo di continuare il loro viaggio verso il nord Europa. Come loro tanti altri.

A Pisa da aprile 2014 a febbraio 2015 sono giunti nelle strutture da noi gestite165 migranti. Di questi solo in quarantaquattro sono rimasti. Un quarto delle persone arrivate. Perchè solo quarantaquattro? Perchè proprio loro?

La risposta è tanto semplice quanto disarmante: sono rimasti perchè non hanno nessuno da raggiungere, nessuna comunità di riferimento. Sono soli.

Provengono quasi tutti dal Gambia e dalla Nigeria, paesi che non hanno alle spalle lunghe storie di migrazioni nel nostro paese. Il loro unico punto di riferimento e di contatto con l’Italia siamo noi, operatori dei centri di accoglienza.

Oltre a fornire loro i beni di prima necessità, li accompagnamo nell’iter burocratico di richiesta asilo, teniamo lezioni di lingua e cultura italiana, li affianchiamo in tutto quello che riguarda l’assistenza socio-sanitaria e i servizi di integrazione.

Il nostro compito è fornire loro gli strumenti necessari per aiutarli a muoversi in modo autonomo all’interno delle nuove coordinate spaziali e culturali tanto lontane da quelle di provenienza.

Abbiamo poi un compito più grande e difficile di tutti,  che è quello di affiancarli nel delicato periodo di “ri-definizione” e “ri-costruzione” del sè che ogni migrante, e ancora di più un richiedente asilo, deve affrontare. È un compito di grande responsabilità ma anche di grande arricchimento perchè siamo fermamente convinti che solo attraverso il confronto e il dialogo sia possibile costruire una società nella quale, ognuno con le sue peculiarità, contribuisce al bene comune.

Jenny De Salvo
operatrice Sociale e insegnate corso italiano per migranti della cooperativa Arnera

 

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Pubblicato il: 13 marzo 2015

Argomenti: Mondo, Pisa, Sociale

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