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inQuadriamo il diritto Il danno alla salute: cosa è, come si liquida

salute

Quali sono i criteri con cui si valutano e si determinano i risarcimenti in caso di danno alla salute? In questa prima parte vediamo quali sono le sue origini e cosa è cambiato dagli anni ’70 a oggi


Cari Lettori,
oggi con InQuadriamo il diritto torniamo a parlare di danno non patrimoniale e, in particolare, di danno alla salute.

Quando si parla di danno alla salute tutti noi sappiamo, più o meno, a che cosa si fa riferimento, ma quando ci si addentra entra nei meandri di questo tipo di danno la terminologia si fa difficile, i criteri di valutazione del danno sembrano complicati calcoli matematici e talvolta si fatica a capire in che modo sia possibile liquidare questo tipo di pregiudizio.

Vediamo, allora, di fare un po’ di chiarezza. E partiamo proprio dalle origini del danno alla salute.

Innanzitutto, di danno alla salute (o danno biologico: i due concetti sono differenti ma si tratta di due terminologie ormai comunemente utilizzate in modo indifferenziato) come lesione della salute vera e propria si è iniziato a parlare soltanto negli anni ottanta. Prima di allora si liquidavano sì i risarcimenti per le lesioni fisiche, ma solo in relazione alla conseguente diminuita capacità di produrre reddito del danneggiato. Per farvi un esempio: Tizio, artigiano calzolaio, produce ogni giorno 10 paia di scarpe e guadagna ogni giorno 10 mila lire (all’epoca – non eravamo ancora negli anni ottanta – si ragionava in lire!!). A seguito di un infortunio, Tizio perde un dito della mano sinistra, e da quel momento riesce a produrre ogni giorno solo 5 paia di scarpe, guadagnando così solo 5 mila lire. Il risarcimento che spettava a Tizio per la perdita del dito non veniva, quindi, commisurato al valore che poteva avere il dito di Tizio in sé e per sé considerato, ma alla perdita di capacità lavorativa di Tizio. Così, il risarcimento che spettava a Tizio si traeva dalla differenza tra quanto guadagnava prima (10 mila lire) e quanto poteva guadagnare dopo il sinistro (5 mila lire): a Tizio spettavano, quindi, 5 mila lire a titolo di risarcimento del danno per la perdita del dito.

Questo ragionamento mostrava però tantissimi limiti, soprattutto nei casi in cui il danneggiato non produceva alcun reddito. Immaginate il piccolo Sempronio, di soli sei anni, che per un tragico incidente perde un dito. Che criterio si può usare per risarcire il danno al piccolo Sempronio? Visto che Sempronio è solo un bambino e non produce alcun reddito, la giurisprudenza pensò di usare un criterio “derivato” da quello usato nell’esempio di prima. E per farlo fece il seguente ragionamento: caro Sempronio, visto che tuo padre fa l’operaio, e visto che anche tu da grande farai l’operaio, allora il risarcimento che ti spetta è quello che spetterebbe ad un operaio per tutta la sua vita lavorativa nel caso di perdita di un dito. Un operaio che debba lavorare tutta la vita senza un dito avrà una diminuzione del proprio reddito complessivo di un certo importo, e questo è l’importo che noi oggi, caro piccolo Sempronio, ti riconosciamo a titolo di risarcimento del danno. Ovviamente il falso sillogismo per cui il figlio di un operaio da grande dovrà fare per forza l’operaio è assurdo, privo di fondamento, aspramente criticabile da ogni punto di vista: si tratta di un ragionamento che oggi non potrebbe più essere fatto in nessuna aula giudiziaria. Ma da quella pronuncia (era il lontano 1971) sono passati molti anni, e la coscienza sociale per fortuna si è evoluta.

Immaginate, ancora, Caio, un simpatico pensionato di quasi sett’anni. Anche Caio ha un brutto incidente, anche Caio perde un dito della mano. Ma Caio, con o senza il suo dito, la pensione la percepisce ugualmente. Quindi, di fatto, con o senza dito Caio non ha nessuna riduzione del proprio guadagno mensile. Questo è il ragionamento seguito da un’altra sentenza, questa volta del 1967, nella quale il tribunale ebbe ad affermare che i pensionati erano “uomini senza alcun valore” (la frase ovviamente non è mia!), dato che si limitavano a percepire una pensione senza produrre alcun tipo di reddito: ai pensionati, pertanto, non spettava alcun risarcimento per la perdita dell’integrità fisica.

Per fortuna affermazioni e ragionamenti come questi oggi non sono nemmeno più immaginabili, ma questo era il contesto giurisprudenziale nel quale ha cominciato a muoversi il danno alla salute per come lo conosciamo oggi. Per superare le palesi incongruenze e, ancor prima, i gravi ed evidenti problemi di ingiustizia sociale che questo criterio di liquidazione del danno portava con sé, gli studiosi del diritto (professori, giudici ecc.) iniziarono a pensare ad un altro criterio di liquidazione del danno che potesse essere fondato su una base di eguaglianza sostanziale. È vero che la vita e la salute non hanno prezzo, ed è vero che non esiste un tariffario che ci dica quanto vale un dito, una mano, un braccio, un occhio o una gamba, ma è anche vero che una qualche forma di risarcimento va comunque riconosciuta per le lesioni che vanno ad incidere sull’integrità psico-fisica della persona. Dunque, a quale criterio affidarsi?

Mi dispiace lasciarvi con la curiosità per un’altra settimana, ma la soluzione che fu escogitata merita di essere spiegata in una “puntata” tutta nuova di questa rubrica, perché è davvero molto interessante, soprattutto per come viene oggi applicata, quindi … vi aspetto alla prossima!

Francesca Bonaccorsi

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Pubblicato il: 11 marzo 2015

Argomenti: Diritto, InQuadriamo il diritto, Quaderni, Salute - Sanità

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