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InQuadriamo il diritto Quando il decesso si può risarcire, ecco cosa dice la legge

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La giurisprudenza ha individuato quattro tipi di danni non patrimoniali per cui è previsto il risarcimento nel caso del decesso di una persona dovuta a sinistri e fatti illeciti


Cari Lettori,
oggi con InQuadriamo il diritto affronteremo la complessa e delicatissima tematica dei cosiddetti danni da morte.

Di danni da morte si parla, in Italia, ormai da moltissimi anni, e nel corso del tempo la dottrina e la giurisprudenza hanno cercato di individuare in questa “macro area” quattro tipi di danni non patrimoniali in astratto risarcibili in caso di sinistri e fatti illeciti con esiti letali: il danno da perdita o da lesione del rapporto parentale, il danno biologico terminale, il danno catastrofico o catastrofale e il danno tanatologico.

Con la locuzione “danno da perdita o da lesione del rapporto parentale” si fa riferimento al danno subito dai parenti o dai conviventi della vittima di un sinistro o di un fatto illecito, ossia al danno che deriva dalla lesione del loro diritto ad avere rapporti affettivi con la vittima. Pensate, ad esempio, a Tizio che muore in un sinistro stradale e a suo fratello Caio che agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno per la perdita del fratello, o a Sempronia, sua convivente more uxorio, che agisce in giudizio per ottenere il risarcimento del danno per la perdita del suo compagno di vita. In questo caso, Caio e Sempronia lamentano la lesione del loro diritto ad avere rapporti affettivi con il fratello e con il convivente more uxorio, lamentano di aver perso la possibilità di vivere il resto della loro vita con Tizio, di amarlo, di frequentarlo, di fare insieme a lui tutto ciò che facevano prima della sua morte e che oggi non possono più fare. Il danno non patrimoniale viene, in queste ipotesi, liquidato in via equitativa, ma i giudici hanno a disposizione delle tabelle redatte da alcuni Tribunali (e in particolare dai Tribunali di Milano e Roma) che, per ogni tipo di rapporto parentale (ad es: fratello/fratello; convivente/convivente ecc.) individuano l’importo minimo e l’importo massimo del risarcimento, lasciando al giudice la libertà di valutare, nel singolo caso concreto, quale sia la “giusta” somma da assegnare ai parenti e ai conviventi della vittima.

Con la dicitura “danno biologico terminale” si fa riferimento al danno alla salute che si produce nel lasso di tempo che può talvolta intercorrere tra il sinistro ed il decesso della vittima. Pensate, ad esempio, a Tizio che, coinvolto in un sinistro stradale, viene ricoverato in ospedale e lì muore dopo quindici giorni. In questo caso Tizio riporta sicuramente un danno alla salute, ma questo danno alla salute non si evolve con la sua guarigione ma con il suo decesso. Anche in questo caso, gli eredi di Tizio possono, almeno in astratto, agire in giudizio nei confronti del responsabile del sinistro chiedendo il risarcimento del danno biologico terminale subito da Tizio nel lasso di tempo che è trascorso tra il sinistro e la sua morte, e anche in questo caso la liquidazione del danno sarà equitativa, e potrà avvenire sulla base delle tabelle predisposte dal Tribunale di Milano e adottate in moltissimi altri Tribunali italiani.

Con la dicitura “danno catastrofale” (o “danno catastrofico”) si fa, invece, riferimento al danno collegato alla sofferenza ed all’angoscia patite dalla vittima di un sinistro che, consapevolmente, si rende conto che la propria fine è vicina e attende impotente la propria morte. Pensate, ad esempio, a Tizio che, lanciatosi con il paracadute, si accorge che questo non si apre: Tizio si rende immediatamente conto di non poter far nulla per evitare la propria morte, e nei pochi secondi di durata della sua caduta prova una sofferenza psichica ed un’angoscia inimmaginabili. In questo caso gli eredi di Tizio potranno agire in giudizio nei confronti del responsabile del sinistro chiedendo che venga concesso un risarcimento (ancora una volta calcolato in via equitativa) il più possibile “proporzionato” alla disperazione di chi, coscientemente, si rende conto che la sua fine è imminente e che ormai non ha più alcuna possibilità di sopravvivenza.

Con la dicitura «danno tanatologico» si fa, infine, riferimento ad un danno connesso alla perdita in sé della vita. Si tratta di un tipo di danno che, pur riconosciuto ormai da anni in tantissimi Tribunali d’Italia, e pur accolto con molto favore da moltissimi studiosi del diritto, è stato “ufficialmente” riconosciuto dalla Corte di Cassazione soltanto un anno fa, con una sentenza divenuta presto famosa nella quale la Corte di Cassazione ha affermato che “negare alla vittima il ristoro per la perdita della propria vita significa determinare una situazione … che in realtà rimorde alla coscienza sociale … La perdita del bene vita, oggetto di un diritto assoluto e inviolabile, è allora ex se risarcibile, nella sua oggettività”. In parole semplici: la perdita della vita costituisce di per sé un danno, e come tale va risarcito. A molti potrà sembrare un’affermazione banale e scontata, ma vi assicuro che fino a gennaio dell’anno scorso l’argomento non sembrava affatto banale o scontato.

Il riconoscimento del danno tanatologico è, a mio avviso, di fondamentale importanza nel sistema del diritto italiano, e proverò in poche righe a spiegare il perché. Fino ad oggi, l’evento-morte dava luogo, nelle aule dei Tribunali, a risarcimenti veramente molto diversi tra loro. Considerate, ad esempio, che agli eredi delle vittime che morivano “sul colpo” non poteva spettare, di regola, né il risarcimento del danno biologico terminale (dato che non intercorreva nessun apprezzabile lasso di tempo tra il sinistro e il decesso della vittima) né il risarcimento del danno catastrofale (dato che la vittima poteva non essersi resa conto dell’imminenza della propria morte): gli eredi della vittima avrebbero quindi potuto agire in giudizio solo per ottenere il risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale. Considerate, ancora, che gli eredi di chi moriva nell’arco di un paio d’ore dal sinistro potevano, invece, ottenere (oltre al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale) anche il risarcimento del danno catastrofale subito dalla vittima, ma ancora una volta non potevano ottenere il risarcimento del danno biologico terminale, dato che la sopravvivenza di due “sole” ore veniva considerata dalla giurisprudenza irrilevante ai fini del risarcimento di questo tipo di danno. In pratica, la questione veniva spesso brutalmente “ridotta” ad un freddo calcolo della capacità di resistenza della vittima: tanto più era stata forte ed aveva resistito prima di morire, tanto maggiore era il risarcimento che veniva concesso ai suoi eredi, con la conseguenza quasi paradossale che per i sinistri più gravi e drammatici (ossia quelli nei quali la vittima moriva “sul colpo”) il risarcimento concesso agli eredi era minore.

Oggi il “nuovo” danno tanatologico ha lo scopo di rendere tutti un po’ più uguali davanti al diritto, perché il risarcimento di questo tipo di danno può essere chiesto indipendentemente da quanto la vittima sia rimasta in vita dopo il sinistro, o da quanto abbia eventualmente sofferto prima di morire. E parlando di danno tanatologico mi viene sempre in mente A’ livella di Totò … se la morte è ‘a livella che ci rende tutti uguali, almeno il danno tanatologico dovrebbe essere riconosciuto a tutte le vittime di sinistri e fatti illeciti.

Francesca Bonaccorsi

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Pubblicato il: 28 gennaio 2015

Argomenti: InQuadriamo il diritto, Quaderni

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