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“Porno libera tutt*!” La rivoluzione di Slavina e le altre

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Questa cosa del post porno non è facile da spiegare anche a chi non ha masticato per un po’ la faccenda. E dico masticare mentre addento un panino con burro e acciughe, niente di più sexy in questo momento, e provo a raccontare le chiacchiere in libertà fatte con Slavina, porno attivista che sabato 11 ottobre è stata a Pisa con il suo spettacolo “Devenir Perra”. Prima del pienone in quel del Cantiere San Bernardo, un pomeriggio di una Pisa inebriata dall’Internet Festival e dal suo “Off”, e nell’attesa dello spettacolo abbiamo cercato di capire qualcosa in più del post porno proprio con Slavina. Quasi 40 anni, vive a Barcellona ma è spesso ospite in Italia, dove insieme a un gruppo di registe e attrici ha fondato il collettivo “Le ragazze del porno”, progetto in cui è tuttora impegnata. Del personaggio, della sua attività, delle pratiche private e politiche che vive e porta in giro fra Italia e Spagna…

Partiamo dalle origini. Come ti sei avvicinata al porno prima e al post porno poi?

Oltre 10 anni fa appena arrivata a Barcellona ero alla ricerca di un lavoro. Sapevo poco lo spagnolo, ancor meno il catalano ed era difficile anche solo trovare un lavoro come cameriera. Vidi un annuncio per locutrici, per una casa di produzione che faceva dvd doppiati in 5 lingue. Il responsabile mi spiegò con qualche imbarazzo che si trattava di doppiare porno tradizionali. Era un lavoro divertente e pagavano bene. Aveva anche i suoi aspetti buffi: io ad esempio non avevo una formazione da attrice, ma lavoravo con colleghe e colleghi molto seri che venivano dall’accademia. Ho fatto questo lavoro per 8 anni, poi la casa di produzione ha avuto un crollo causato dal boom del porno gratis reperibile in rete, ed è finita.

La rete che cambia l’industria del porno. Un fenomeno che si può leggere da diversi punti di vista

Da quando ho perso la reputazione sono diventata libera

Sì, la rete cambia la fruizione e di conseguenza la produzione, e i formati. La visione media di una scena di sesso nelle pay tv si è ridotta a 4 minuti circa, mentre in un porno “tradizionale” durava tra i 15 e i 28 minuti. Ho lavorato anche su alcuni set di porno commerciale. Per la serie “Ho visto cose che voi umani”, nel porno tradizionale ho conosciuto donne fortissime e piene di consapevolezza, ma ho visto anche situazioni di disparità e sopratutto la rappresentazione di un sesso veramente limitante e spesso degradante. Da qui l’esigenza di rappresentare un sesso più giocoso, gioioso ed egualitario. E la molla per dedicarmi a un porno diverso è stata anche dettata dal clima culturale della Spagna, che sui temi del lavoro sessuale, della ricerca e dell’affermazione di una sessualità più libera, è nettamente più aperto di noi.

Quando parli della tua attività affermi “Io faccio anche l’attrice, perché mi piace, vivo il sesso come terreno di sperimentazione”. Per questa ragione oltre all’attrice fai anche laboratori. Spiegaci di cosa si tratta

Si tratta di portare il porno fuori dai suoi ambiti abituali e usarlo come codice che mette in relazione persone interessate a condividere esperienza negative e positive della loro sessualità, che vogliono decostruirla e reinventarsene una nuova e propria. I laboratori sono esperienza pornografiche in termini di genere di narrazione. Si raccontano le proprie vite e quegli aspetti molto particolari delle proprie vite quali sono le relazioni sesso affettive. Ogni volta che porto avanti un laboratorio si liberano forze quasi ancestrali, percepisco fortissimamente quella potenza femminile che ci insegnano a non riconoscere e a ignorare (perché invece fra donne si deve essere sempre un po’ rivali). Quello che dico sempre, sia alle donne che agli uomini con cui ho fatto laboratori, è che quando ho perso “la reputazione” sono diventata libera. Da quel momento è diventato tutto possibile e anche tutto più facile.

Raccontaci qualcosa delle Ragazze del porno e dei tuoi attuali progetti

È un progetto collettivo di produzione cinematografica post­porno. Persone molto diverse tra loro si sono trovate su un interesse molto particolare. Il progetto va avanti da due anni, con i tempi che richiedono i progetti collettivi. Il dato attuale è che, pur venendo alcune di noi dal mondo della produzione “mainstream”, ci siamo scontrate con le caratteristiche dell’industria culturale italiana, che ha ignorato le nostre proposte ufficiali e siamo tornate così a intraprendere – per quanto mi riguarda ancora una volta ­un percorso di autoproduzione. Con molta amarezza ma a testa alta. La nostra proposta in un paese come l’Italia continua a essere percepita come troppo rischiosa, anche se siamo convinte che economicamente sia un progetto super appetibile e possa avere un successo sicuro. Ma c’è molta paura ad affrontare l’argomento “sesso”, e anche la metastoria delle ragazze del porno, quello che è successo individualmente a ciascuna di noi, ne è una prova.

Cos’è successo?

Tutte abbiamo dovuto affrontare uno stigma che, nonostante la nostra età adulta e le nostre posizioni indipendenti, continua a esistere. Nei rapporti familiari, nei contesti di lavoro. Se sei donna e dici a qualcuno che ti occupi di porno pensano subito che fai l’attrice (e questo dato è problematico, se non hai rinunciato pacificamente all’idea di avere una buona reputazione), magari invece sei una regista e piú che scopare in giro ti interessa raccontare delle storie. Il problema comunque non è il porno, è il capitalismo.

Capitalismo che anche in rete agisce con fierezza. Come si supera la contraddizione per cui l’attivismo in rete, attraverso le autoproduzioni ­ testuali, culturali, post porno ­ diventa lavoro gratuito che crea plus valore per l’economia della rete?

Io ne sono uscita passando per l’analisi e il paragone con il lavoro sessuale e con il lavoro di cura. Quest’ultimo è gratuito ma è quello che produce più plusvalore, perché ricrea la vita. Quanto al lavoro sessuale, le puttane sono invece storicamente i primi soggetti che hanno dato un prezzo a ciò che non aveva prezzo. Analogamente oggi per chi viene dall’underground e dall’attivismo la questione di “darsi un prezzo” è molto complicata, perché si è abituati a promuovere la gratuità, che è un valore prezioso. Credo però sia giusto porsi la questione, visto che siamo tutt* precari in vario modo e anche se crediamo in quello che facciamo in qualche modo dobbiamo procurarci il denaro per sopravvivere.

 

Foto di Emmepi

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Pubblicato il: 19 ottobre 2014

Argomenti: Cultura, Mondo, Politica

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