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DiSbieqo A proposito di Davis, dei fratelli Coen

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“A Proposito di Davis” è davvero il miglior film dei Coen o è solo l’ultimo bel film un po’ troppo malinconico? A mio avviso la seconda.

a proposito di davisIspirato alla biografia del cantante folk Dave Van Ronk – “The Mayor of MacDougal Street: A Memoir”, uscita postuma nel 2005 – il film racconta l’esordio folk di Llewyn Davis, di madre italiana e padre gallese, nel Greenwich Village a Manhattan, all’inizio del 1961. L’attore che lo interpreta, il bellissimo e bravo Oscar Isaac, non riesce però a dare spessore al personaggio, fragile e distante, che rimane un po’ troppo a naufragare negli eventi, senza davvero scegliere di modificarli. La sceneggiatura è senz’altro basata su una scrittura perfetta, ma questo non basta a rendere profonda la nostra conoscenza del personaggio.

Si vorrebbe, forse, col film, rivendicare il diritto a un’ascesa sociale e professionale di un proletariato newyorkese, povero, – il protagonista è senza cappotto e ha scarpe scalcagnate – che non accetta la condizione fallimentare dei padri da cui proviene – straziante la scena del padre quasi autistico nel ricovero.

Ma questa ascesa non si raggiunge mai, si diventa barboni, si rubano pasti, calore e divani da amici (a turno) e anche le donne, si rubano. Carey Mulligan, nei panni della cantante Jean Berkey, è spietata e fredda e non finisce mai, per tutto il film, di buttare addosso a Llewyn dissacrante disprezzo (proviene forse da un mancato amore che lui non ha il coraggio di vivere fino in fondo?). Fatto sta che la solitudine del nostro antieroe ci annienta, via via, durante la visione, anche se non risulta solo vittima, della sorte e delle proprie scelte –  maltrattato anche dalla sorella un po’ bigotta – ma finisce con l’essere troppo accondiscendente alla sua eterna sfortuna: sembra cercarsele le cose, gli eventi, non reagisce alle offese, rimane un uomo che alla fine non sa come non mettere incinta le donne…

Durante il viaggio quasi allucinatorio verso Chicago, con i due personaggi più strampalati dell’intero film – John Goodman, che interpreta magistralmente Roland Turner, grasso scorbutico e tossico e Garrett Hedlund nelle parti del giovane Johnny Five che si esprime con poche parole e ha uno sguardo truce – riconosciamo il sarcasmo e il gusto noir dei due fratelli. Ed è proprio nella risoluzione del viaggio che si incontra un elemento singolare, spia dell’inaffettività del protagonista: nella notte si scambia un intenso sguardo con il gattone rosso “rubato” dalle strade di Manhattan ma decide, senza scrupoli, di abbandonarlo chiuso nell’auto con un uomo che non si sa se vivo o morto.

La scena più intensa e struggente si svolgerà proprio a Chicago, negli studi di registrazione di Bud Grossman – interpretato, nella sua parte breve ma intensa, da Murray Abraham – in una luce da show appena concluso – che fa risaltare la splendida fotografia di Bruno Delbonnel, dalle colorazioni quasi virate al seppia. Sulla sedia al centro del buio locale, con la sua chitarra, unica compagna di affetto e di vita (si può proprio dire), Llewyn canta la sua canzone che dovrebbe farlo apprezzare dal grande produttore. La canzone è bellissima, come del resto tutta la colonna sonora – Bob Dylan, Marcus Mumford, Stark Sands, Punch Brothers e Oscar Isaac stesso… – ma sancirà definitivamente il fallimento professionale del protagonista, “non si fanno i soldi con questa roba” dirà di risposta il produttore dopo l’ascolto. Non c’è lotta, tentativo di convincimento, c’è semmai tutta la rassegnazione possibile, la fretta di metter via la chitarra e scappare di nuovo in strada a cercare, chissà come, uno strappo, un pasto, un giaciglio per vivere un’altra notte di non-vita.

E al ritorno, in un altro scroccato viaggio verso New York, lo svincolo sull’autostrada mostra il nome del paese in cui vive quello che sarebbe suo figlio – se avesse saputo della rinuncia all’aborto della donna – ma la macchina continua inesorabile il suo viaggio sulla strada, senza girare – come per il gatto, prima abbandonato e ora non soccorso – senza prendersi responsabilità.

Se il film non ci racconta bene, nel profondo, la vera storia di Dave Van Ronk, lasciandolo sfumato e poco precisato nelle varie sfere della vita, non ci racconta neppure troppo bene la storia della sua musica, la sua evoluzione, gli ambienti, i meccanismi, gli affetti. Allora, rimane solo il racconto triste del non riuscire, del non avercela fatta.

Il film diventa, dunque, il film della delusione, del fallimento, della vita che si può buttare, come per il partner di Llewyn, che ne esce quasi più vittorioso attraverso l’eroica aura che regala la morte.

Il film, forse, è la poetica metafora di arte-musica-cinema, della loro esplosione e celebrazione e quindi anche, nella sua intima autoreferenzialità, della loro rinuncia-sconfitta-delusione malinconiche?

Anche la chiusura circolare del film, laggiù dove avevamo iniziato, con la lunga analessi che non si capisce da dove si inizi, se dalla fine o dal principio, rende ancora di più inesorabile e schiacciante la sconfitta: non solo professionale, ma umana, rendendocela definitiva. Rimane la voglia di una scena in più, in aggiunta, un barlume di sguardo che ci faccia, almeno un po’, sperare Basterebbe qualche centimetro di piano sull’asfalto ad indicarci un futuro, un continuum che, invece, non c’è.

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Pubblicato il: 8 febbraio 2014

Argomenti: DiSbieqo, Quaderni

Visto da: 2282 persone

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Una risposta a: DiSbieqo A proposito di Davis, dei fratelli Coen

  1. avatar Beppe scrive:

    La speranza alla fine c’è: è nell’ingresso sul palco di un giovane Bob Dylan che cambierà la storia del folk e della musica . Ma questa è un’altra storia come direbbe Corto Maltese.

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